martedì 11 ottobre 2016

Calzature CAFe'NOIR

              

              20 anni di storia e di successi aziendali

CafèNoir un’azienda italiana, che opera dal 1992 nel mercato della calzatura e degli accessori per la persona.
I prodotti nascono in Toscana, vicino a Firenze, nel cuore della creatività e dello stile della moda italiana. CafèNoir come altri marchi e griffe del fashion può contare sulle eccellenze del distretto della pelle denominato “comprensorio del cuoio”, area geografica specializzata nella produzione di pellami, calzature e borse.
Il brand CafèNoir lanciato nel 1997, è diventato in breve tempo un leader di riferimento nel segmento di mercato in cui opera.
CafèNoir è un’azienda fortemente “marketing oriented” che sostiene il brand con la creatività dello stile e costanti investimenti in advertising.

DECOLTE' DI LABARILE ERASMO & C SNCVIA GIAMBATTISTA VICO, 25 - 70029 SANTERAMO IN COLLE (BA)Tel. 080/3039007


                 Management & organizzazione

I grandi risultati raggiunti in questi anni di attività sono dovuti all’azione sinergica di diversi fattori competitivi.
Il management giovane, dinamico e flessibile ha contribuito a sviluppare una cultura innovativa e moderna. L’azienda può contare su un’elevata capacità organizzativa che le ha consentito una programmazione dello sviluppo del business nel corso degli anni.
Tutti i processi aziendali si basano su un know how interno profondamente condiviso e sono supportati da tecnologia idonea a favorire la relazione con gli operatori professionali.
La posizione competitiva raggiunta sul mercato e la gestione aziendale hanno contribuito al raggiungimento di un equilibrio economico e finanziario requisito indispensabile per affrontare le nuove sfide del mercato, che rendono la società un partner affidabile per la distribuzione italiana ed internazionale e per tutta la filiera produttiva

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           Il posizionamento del brand sul mercato
CafèNoir è un leader in Italia nel segmento “Fashion Accessible”, esporta nel mondo l’Italian Style.
Si posiziona nella fascia di mercato e di prezzo definita della “massima vendibilità”, segmento sempre più strategico per i trend del mercato internazionale.
Negli anni il mercato ha premiato lo stile, il design e l’ottimo rapporto qualità/ prezzo che garantisce una grande rotazione del prodotto.
Una buona “visione” del mercato e la conseguente politica di prodotto, consentono di interpretare costantemente i nuovi bisogni e gli stili di vitadel consumatore moderno, rispettando soprattutto le necessità ed il ruolo strategico della distribuzione nella relazione con il cliente finale.

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mercoledì 17 agosto 2016

In pochi se ne sono accorti che torneremo tutti agricoltori

Pochi se ne sono accorti in questi anni, ma l’agricoltura è una delle poche vere eccellenze che sono rimaste a questo paese. Torneremo tutti agricoltori?

Ragazzo agricoltore
Negli anni ’50 eravamo una terra di agricoltori diventati operai. Nel giro di vent’anni gli operai sono diventati impiegati. Il problema sono i figli degli impiegati, cui era stata promessa la luna di un lavoro creativo, senza cravatte, gerarchie, noia. E che, complice la crisi economica, si sono ritrovati, molto più prosaicamente, senza un lavoro. Molti di loro ancora non si sono rassegnati, a cercare il loro personale eldorado nella giungla del terziario avanzato. Altri, invece, sono tornati al punto di partenza, ai campi e alla terra.
Pauperismo, anti-capitalista? Decrescita felice? Niente di tutto questo. Al contrario, in questi ultimi anni, mentre il PIL italiano cadeva, il valore aggiunto dell’agricoltura italiana è cresciuto, compreso l’export, il quale è decaduto in altri settori. Questa crescita agricola ha avuto effetti benefici anche sull’occupazione, ma non è riuscita ad influire più di tanto su quella generale del paese, determinata da un forte calo in tutti gli altri settori.
Come ben racconta l’ultimo rapporto di Fondazione Symbola dedicato all’agricoltura,sono ben 77 i prodotti in cui la quota di mercato mondiale dell’Italia è tra le prime tre al mondo, 23 – tra cui pasta, pomodori, aceto, olio, fagioli –  in cui è la prima.
Libri sull'argomento

Impulsi Scientifico Spirituali per il Progresso dell'Agricoltura di Rudolf Steiner
Manuale Pratico di Agricoltura Biodinamica di Pierre Masson
Indicazioni sullo Studio delle Costellazioni di Maria Thun
Agricoltura Sinergica di Emilia Hazelip
Calendario delle Semine 2016 di Maria Thun
Masanobu Fukuoka: Lezioni Italiane di Giannozzo Pucci, Masanobu Fukuoka

La nostra capacità di primeggiare è figlia, soprattutto, della grande qualità delle nostre produzioni. Non è un caso, peraltro, che non ci sia agricoltura in Europa – e poche al mondo – che abbia una capacità di generare valore aggiunto quanto quella italiana. Da noi, un ettaro di terra, produce 1989 euro di valore aggiunto: ottocento euro in più della Francia, il doppio della Spagna, il triplo dell’Inghilterra.
Altro dato piuttosto sorprendente è la nostra supremazia nell’economia delle produzioni biologiche. Nessun paese Europeo ha tanti produttori quanti ne ha l’Italia, che ne può contare ben 43.852, il 17% di tutti i produttori europei. Se allarghiamo lo sguardo oltre i confini continentali, siamo anche sesti al mondo per ampiezza delle superfici a biologico, che crescono a un ritmo di 70mila ettari l’anno.
Il risultato di quest’eccellenza è il frutto dell’innesto di menti giovani e di pensieri innovativi dentro mestieri antichi: oggi, un’azienda agricola su tre è guidata da persone che hanno meno di trentacinque anni.  Non ci sono solo loro e non c’è solo l’anagrafe, tuttavia. L’intreccio con nuovi saperi e nuove tecnologie sta davvero cambiando i connotati all’agricoltura. Un tempo agricoltura era sinonimo di coltivazioni con finalità alimentari, oggi non è più così. Oggi l’agricoltura è una piattaforma su cui si innestano molteplici tipi di industrie, dalla alimentare alla chimica, dall’energia al tessile.
Ragazza agricoltrice
Con gli scarti della produzione agraria, ad esempio, è possibile produrre prodotti biologici in altri settori. Una sorta di bioeconomy che comprende tutte le produzioni sostenibili di risorse biologiche rinnovabili e la loro conversione: ad esempio quella dei flussi di rifiuti in cibo, mangimi, o prodotti bio-based, come le bioplastiche, i biocarburanti e la bioenergia. Un macro-settore, questo, che seppur neonato in Italia, vale già 241 miliardi di euro e occupa 1,6 milioni di persone.
Una soluzione per sfamare, vestire, riscaldare nove miliardi di persone, senza distruggere il pianeta. Forse il ritorno all’agricoltura potrebbe essere non solo la nostra salvezza in termini economici, ma anche quella dell’intero pianeta per quanto riguarda l’ambiente.

Il futuro potrebbe essere il lavoro artigianale !!!!!!

Il futuro è artigiano. Lo profetizzava Philip K. Dick nelle sue opere visionarie, dove spesso il protagonista era una sorta di artigiano, abilissimo nel costruire o riparare le cose. Lo scrive oggi Stefano Micelli. Veneziano doc, docente di Economia e Gestione delle Imprese all’Università Ca’ Foscari, e autore di un libro, Futuro artigiano(Marsilio), che ha riscosso l’interesse di tutto il mondo produttivo italiano. Nonché successo tra il grande pubblico.
Le tesi di Micelli sembrano l’uovo di Colombo: il lavoro artigiano è una delle cifre della cultura e dell’economia italiana; se si tornasse a scommettere su di esso, contaminandolo con i “nuovi saperi” tecnologici e aprendolo alla globalizzazione, l’Italia si ritroverebbe tra le mani un formidabile strumento di crescita e innovazione. Come dimostrano alcune delle più dinamiche imprese italiane (da Geox a Zamperla, da Gucci a Valcucine) il “saper fare” rimane un ingrediente indispensabile per l’intero manifatturiero italiano. Che, alla fine, è uno dei pochi settori vitali della nostra economia.
«Parliamo sempre di trasferimento tecnologico – dice Micelli – ma bisognerebbe parlare di osmosi. Osmosi tecnica e tecnologica. Cioè mescolare le abilità artigianali con le competenze industriali; le capacità dei tecnologi e dei manager con quelle, straordinarie, dei tecnici e degli artigiani».
Quella di Micelli potrebbe sembrare una provocazione nostalgica, quasi passatista. In realtà c’è una buona dose di pragmatismo, nella sua riflessione. Non a caso, nel paese innovatore per antonomasia, cioè gli Stati Uniti, la causa dei “makers”, di coloro che si fanno le cose da soli, sta guadagnando sempre più consensi. Per tanti motivi. Ad esempio, per sfuggire alle logiche impersonali della produzione di massa. O perché manutenere è meglio che riciclare; riparare un oggetto che non funziona è spesso un gesto più ecologico che comprarne uno nuovo. Con buona pace dei diktat consumisti.
E poi il lavoro artigianale non restituisce dignità solo alle cose; anche alle persone. Nelle prime pagine del suo libro, Micelli cita la parabola di Matthew Crawford. Laureato in fisica, PhD in filosofia politica, Crawford finisce presto in un noto think tank conservatore. Un lavoro ben retribuito, importante. Ma che non lo appaga. E così, pochi mesi dopo, molla tutto e apre a Richmond (Virginia), un’officina di riparazioni, la Shockoe Moto. Qui aggiusta vecchie motociclette: un lavoro che magari non fa arricchire, ma rende orgogliosi e gratificati.
Riscoprire il “saper fare”. Ben consapevoli però della globalizzazione e dei “nuovi saperi.” In un Paese come l’Italia, famoso per i suoi prodotti di qualità, e dove la disoccupazione giovanile è altissima ma scarseggiano carpentieri, fornai, sarti e scalpellini, non sembra una cattiva idea.
Professore, il titolo del suo libro suona provocatorio. Oggi tutti parlano di economia della conoscenza, e lei tesse le lodi dell’artigianato.
Nel mio libro ho provato a ribaltare una prospettiva, una visione ormai radicata. Noi siamo vittime di un concetto, quello di “economia della conoscenza”, che si fonda su un assunto quasi ideologico: cioè che solo la conoscenza formalizzata è rilevante, ed essa non ha a che fare né con la tradizione né con la manualità. Abbiamo abbracciato il presupposto in base al quale l’unica conoscenza economicamente rilevante è quella scientifica, di tipo generale-astratto. Il nostro presupposto, il Canone occidentale contemporaneo, è questo. Pensi solo al testo L’economia delle nazioni di Robert Reich, e alla sua influenza sulla mia generazione.
Lei lo cita, nel suo libro. «Vent’anni fa Robert Reich […] metteva a fuoco la figura degli analisti simbolici come pivot di una tecnocrazia capace di imporre il proprio ruolo a livello globale. Gli analisti simbolici […] che, di mestiere, “individuano e risolvono i problemi e fanno opera di intermediazione mediante l’elaborazione intellettuale di simboli”».
Robert Reich sosteneva che il futuro sarebbe appartenuto ai cosiddetti analisti simbolici. Gli analisti simbolici sono i consulenti finanziari, i trader, gli intermediari immobiliari e così via. E tutto il mondo gli ha creduto, dando credito a chi si limita a lavorare con PowerPoint dietro lo schermo di un computer. Questa idea oggi è in crisi negli Stati Uniti. Ed è in crisi in tutto il mondo.
Torniamo all’Italia. Cosa c’entra il cosiddetto “quarto capitalismo”, nuova gloria della nostra economia, con gli artigiani?
Oggi, in Italia, si parla tanto di multinazionali tascabili. Ebbene, io ho voluto capire cosa ha fatto e cosa fa la ricchezza di queste medie imprese. Ho preso in considerazione, ad esempio, il settore del lusso. Qui è significativo il passaggio dall’idea di moda, di fashion, a quella di patrimonio culturale, l’heritage. Con il termine heritage le case di moda indicano tutto quello che ha a che fare con il contenuto culturale di un prodotto e con il suo retaggio simbolico. Oggi, se lei entra in un negozio di Gucci può vedere un video con degli artigiani al lavoro su una borsa. È una cosa incredibile: quella borsa vale migliaia di euro, e Gucci mostra come la si realizza. Stiamo parlando di uno dei principali marchi del Made in Italy e di un’azienda con un fatturato di tre miliardi di euro! Deve far riflettere che l’imprenditore francese François-Henri Pinault abbia costruito un’intera strategia su questo.
Sull’artigianalità?
Assolutamente. Pensi a Bottega Veneta. Quando l’ha comprata Pinault, una decina di anni fa, fatturava una trentina milioni di euro. Adesso fattura oltre mezzo miliardo. Tutto scommettendo sull’artigianalità.
Però si tratta di lusso. E il lusso non è il classico settore industriale. In altri campi, ad esempio quello delle macchine utensili, la musica sarà diversa.
Per scrivere il mio libro ho analizzato una serie di casi, cercando di capire come nascano queste macchine, e anche lì ho scoperto delle cose ai più ignote. Si dovrebbe vedere quanta artigianalità c’è ancora nella realizzazione delle macchine utensili. Quanto sia alto il grado di personalizzazione, il livello di “fatto su misura per te”.
Stiamo parlando di pmi o anche di realtà più grandi?
Prendiamo Geox, che è leader nel lifestyle casual. Geox ha decine di artigiani che fanno i modellisti. Una delle forze di Geox è aver internalizzato competenze straordinarie, che una volta erano disseminate nei distretti, e che loro hanno portato in house. Uniscono il meglio delle tecnologie e il meglio dell’artigianato per produrre prototipi che poi vengono industrializzati in giro per il mondo.
Oppure prendiamo un caso dalla provincia di Vicenza, Zamperla. Zamperla è un mix di high tech e artigianalità: in una sala c’è solo tecnologia, computer con i software per calcolare le spinte centrifughe e altro; poi entri nell’altra sala e ci si imbatte in un gigantesco laboratorio di artigiani che fanno pezzi unici. Gente che salda, carpentieri, pittori, decoratori…. Come in Geox, questa combinazione di ricerca scientifica ad alto livello e di manualità, ha dato ottimi risultati. Quando la città di New York ha offerto a Zamperla la possibilità di costruire il luna-park di Coney Island, le ha dato appena 100 giorni di tempo per completare tutto, e loro hanno potuto fare una cosa del genere solo perché dominano un saper fare unico.
Combinare artigiano e alta tecnologia, insomma.
Noi abbiamo seguito acriticamente l’idea che esistesse una conoscenza astratta-scientifica che si traduceva automaticamente in valore economico. È più complicato di come pensavamo. C’è molta intelligenza nel fare, soprattutto quando i prodotti sono pensati per clienti con richieste specifiche o devono evolvere rapidamente nel tempo.
Insomma, rivalutare l’artigianato per poter essere più competitivi sui mercati globali.
Noi, figli dei dogmi di cui le ho appena detto, abbiamo sempre ripetuto il mantra “dobbiamo investire in ricerca”, considerando invece l’artigianato e le professioni manuali come un retaggio del passato. Se si inizia a ragionare diversamente e a vedere nell’artigianato una risorsa, si ottiene di colpo un acceleratore di innovazione di cui non si riesce nemmeno a immaginare la portata. Anziché giocare alla guerra dei mondi, pensi a cosa si potrebbe fare combinando gli artigiani della meccanica, o della moda, o del vetro, e abbinandoli a un ingegnere, a un esperto di comunicazioni.
Combinare il sapere non formalizzato con quello formalizzato e accademico.
Io, che insegno a Ca’ Foscari, ci ho provato con i miei studenti. Ho fatto sette gruppi da cinque ragazzi; ciascun gruppo ha lavorato con un’azienda per sperimentare modi nuovi di valorizzare il saper fare artigiano. Aziende apparentemente low tech, che fanno biscotti, biciclette, o divani. Prima di tutto ho dovuto far capire ai ragazzi che non stavano studiando un caso di folklore, ma che dovevano scoprire una miniera di sapere con il compito di realizzare dei piani di crescita rapida. In questa iniziativa ho coinvolto banche, esperti di relazioni pubbliche, l’ICE.
Mi scusi, ma i suoi studenti come l’hanno presa? 
E i ragazzi ne sono rimasti entusiasti. Molti di loro non avevano neanche mai preso in considerazione un’idea del genere.
Bisogna far riscoprire agli italiani, anche ai più giovani, il lavoro manuale dunque. 
Se si riuscisse a riconciliare gli italiani con il lavoro manuale sarebbe un sollievo: questa concezione manichea, che ha separato il sapere manuale da quello accademico e scientifico, è stato un errore madornale.
Una cosa non esclude l’altra, però: posso puntare sia sulle nuove tecnologie, sia sulla tradizione. 
Certo, può. Però se vediamo quali sono i prodotti che vendiamo nel mondo, notiamo che non esportiamo biotech o nanotech, ma la meccanica, la componentistica, gli abiti di alta sartoria, l’agroalimentare, (un po’ meno) il design. Un giorno, forse, venderemo anche le nanotecnologie, ma stiamo parlando di un orizzonte di lungo termine. La crisi ci impone di rimettere in moto la macchina economica in tempi brevi.
Lei dunque dice: valorizziamo ciò che abbiamo.
Valorizziamolo nel senso economico e culturale del termine. Negli ultimi dieci anni, il numero dei cosiddetti creativi si è centuplicato. Da quando Richard Florida ha scritto della classe dei creativi e delle 3 T (tecnologia, tolleranza e talento), tutti hanno voluto fare i creativi. Mentre il numero degli artigiani è rimasto lo stesso, o è addirittura calato. Quello che deve fare la nostra economia è ragionare proprio sulla saldatura tra il secondario e terziario, tra servizi e industria. Avere tante fabbrichette ormai serve a poco: molto più utile combinare le competenze artigianali di cui ancora disponiamo con quelle degli ingegneri, dei ricercatori, dei medici, degli esperti di comunicazione. Un cocktail così può generare l’inverosimile, a condizione che la nostra cultura riconosca il saper fare come un vero sapere.
Ecco, di nuovo, saltar fuori il titolo del suo libro: futuro artigiano.
C’è un aneddoto rivelatore. Quando Ettore Sottsass, celebre designer italiano, è andato alla Nasa, e gli hanno fatto vedere le componenti delle capsule spaziali, lui, colpito, ha commentato: «Questo posto è pieno di artigiani». L’aneddoto è divertente perché fa capire come l’high tech che servì a mandare l’uomo sulla Luna fosse in realtà tutto “fatto su misura.” Noi crediamo sempre che sia la scienza l’unico modo per risolvere i problemi. Dietro a molta scienza e sperimentazione c’è invece una capacità di fare che magari facciamo difficoltà a formalizzare, ma che rappresenta una risorsa straordinaria per l’innovazione.
I giovani non fanno gli artigiani anche perché spesso sognano di lavorare come dipendenti, pubblici o privati. C’è, secondo lei, una mancanza di cultura del rischio tra i giovani?
È paradossale, ma tutta la discussione sulla meritocrazia negli ultimi anni non ha aiutato la cultura del rischio. È paradossale perché oggi molti dei nostri migliori studenti, proprio in virtù del fatto che hanno ottimi curricula, si aspettano che qualcuno li assuma. Molti di loro si sono semplicemente adeguati a un percorso deciso da altri; lo studente rischia poco di suo. Oggi viviamo in una società che invece esige che l’imprenditore vada controcorrente, facendo cose diverse, scommettendo su quello che altri non fanno. Ecco perché trovo tutto quanto paradossale: da un lato coltiviamo una cultura della meritocrazia, e dall’altro ci aspettiamo che basti un buon curriculum scolastico per farcela. Un film come The Social Network ha forse cambiato un po’ la percezione. Colpisce, nel film, la frase del rettore di Harvard: «Qui i laureati pensano che sia meglio inventarsi un lavoro che trovarne uno». 

La mediocrazia ha preso il potere

Una «rivoluzione anestetizzante» si è compiuta silenziosamente sotto i nostri occhi ma noi non ce ne siamo quasi accorti: la “mediocrazia” ci ha travolti. I mediocri sono entrati nella stanza dei bottoni e ci spingono a essere come loro, un po’ come gli alieni del film di Don Siegel “L’invasione degli ultracorpi”. Ricordate?
“Mediocrazia” è il titolo dell’ultimo libro del filosofo canadese Alain Deneault, docente di scienze politiche all’università di Montreal. Il lavoro (“La Mediocratie”, Lux Editeur) non è stato ancora tradotto in italiano ma meriterebbe di esserlo se non altro per il dibattito che ha saputo suscitare in Canada e in Francia.
Deneault ha il pregio di dire le cose chiaramente: «Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia – scrive all’inizio del libro -, niente di comparabile all’incendio del Reichstag e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato nessun colpo di cannone. Tuttavia, l’assalto è stato già lanciato ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere». Già, a ben vedere di esempi sotto i nostri occhi ne abbiamo ogni giorno. Ma perché i mediocri hanno preso il potere? Come ci sono riusciti? Insomma, come siamo arrivati a questo punto?
Quella che Deneault chiama la «rivoluzione anestetizzante» è l’atteggiamento che ci conduce a posizionarci sempre al centro, anzi all’«estremo centro» dice il filosofo canadese. Mai disturbare e soprattutto mai far nulla che possa mettere in discussione l’ordine economico e sociale. Tutto deve essere standardizzato. La “media” è diventata la norma, la “mediocrità” è stata eletta a modello.
Chi sono i mediocri
Essere mediocri, spiega Deneault, non vuol dire essere incompetenti. Anzi, è vero il contrario. Il sistema incoraggia l’ascesa di individui mediamente competenti a discapito dei supercompetenti e degli incompetenti. Questi ultimi per ovvi motivi (sono inefficienti), i primi perché rischiano di mettere in discussione il sistema e le sue convenzioni. Ma comunque, il mediocre deve essere un esperto. Deve avere una competenza utile ma che non rimetta in discussione i fondamenti ideologici del sistema. Lo spirito critico deve essere limitato e ristretto all’interno di specifici confini perché se così non fosse potrebbe rappresentare un pericolo. Il mediocre, insomma, spiega il filosofo canadese, deve «giocare il gioco».
Giocare il gioco
Ma cosa significa? Giocare il gioco vuol dire accettare i comportamenti informali, piccoli compromessi che servono a raggiungere obiettivi di breve termine, significa sottomettersi a regole sottaciute, spesso chiudendo gli occhi. Giocare il gioco, racconta Deneault, vuol dire acconsentire a non citare un determinato nome in un rapporto, a essere generici su uno specifico aspetto, a non menzionarne altri. Si tratta, in definitiva, di attuare dei comportamenti che non sono obbligatori ma che marcano un rapporto di lealtà verso qualcuno o verso una rete o una specifica cordata.
È in questo modo che si saldano le relazioni informali, che si fornisce la prova di essere “affidabili”, di collocarsi sempre su quella linea mediana che non genera rischi destabilizzanti. «Piegarsi in maniera ossequiosa a delle regole stabilite al solo fine di un posizionamento sullo scacchiere sociale» è l’obiettivo del mediocre.
Verrebbe da dire che la caratteristica principale della mediocrità sia il conformismo, un po’ come per il piccolo borghese Marcello Clerici, protagonista del romanzo di Alberto Moravia, “Il conformista“.
Comportamenti che servono a sottolineare l’appartenenza a un contesto che lascia ai più forti un grande potere decisionale. Alla fine dei conti, si tratta di atteggiamenti che tendono a generare istituzioni corrotte. E la corruzione arriva al suo culmine quando gli individui che la praticano non si accorgono più di esserlo.
I mali della politica
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All’origine della mediocrità c’è – secondo Deneault (nella foto qui sopra) – la morte stessa della politica, sostituita dalla “governance”. Un successo costruito da Margaret Thatcher negli anni 80 e sviluppato via via negli anni successivi fino a oggi. In un sistema caratterizzato dalla governance – sostiene l’autore del libro – l’azione politica è ridotta alla gestione, a ciò che nei manuali di management viene chiamato “problem solving”. Cioé alla ricerca di una soluzione immediata a un problema immediato, cosa che esclude alla base qualsiasi riflessione di lungo termine fondata su principi e su una visione politica discussa e condivisa pubblicamente. In un regime di governance siamo ridotti a piccoli osservatori obbedienti, incatenati a una identica visione del mondo con un’unica prospettiva, quella del liberismo.
La governance è in definitiva – sostiene Deneault – una forma di gestione neoliberale dello stato, caratterizzata dalla deregolamentazione, dalle privatizzazioni dei servizi pubblici e dall’adattamento delle istituzioni ai bisogni delle imprese. Dalla politica siamo scivolati verso un sistema (quello della governance) che tendiamo a confondere con la democrazia.
Anche la terminologia cambia: i pazienti di un ospedale non si chiamano più pazienti, i lettori di una biblioteca non sono più lettori. Tutti diventato “clienti”, tutti sono consumatori.
E dunque non c’è da stupirsi se il centro domina il pensiero politico. Le differenze tra i candidati a una carica elettiva tendono a scomparire, anche se all’apparenza si cerca di differenziarle. Anche la semantica viene piegata alla mediocrità: misure equilibrate, giuste misure, compromesso. È quello che Denault definisce con un equilibrismo grammaticale «l’estremo centro». Un tempo, noi italiani eravamo abituati alle “convergenze parallele”. Questa volta, però, l’estremo centro non corrisponde al punto mediano sull’asse destra-sinistra ma coincide con la scomparsa di quell’asse a vantaggio di un unico approccio e di un’unica logica.
Che fare?
La mediocrità rende mediocri, spiega Denault. Una ragione di più per interrompere questo circolo perverso. Non è facile, ammette il filosofo canadese. E cita Robert Musil, autore de “L’uomo senza qualità”: «Se dal di dentro la stupidità non assomigliasse tanto al talento, al punto da poter essere scambiata con esso, se dall’esterno non potesse apparire come progresso, genio, speranza o miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido e la stupidità non esisterebbe».
Senza scomodare Musil, viene in mente il racconto di fantascienza di Philip Klass, “Null-P“, pubblicato nel 1951 con lo pseudonimo di William Tenn. In un mondo distrutto dai conflitti nucleari, un individuo i cui parametri corrispondono esattamente alla media della popolazione, George Abnego, viene accolto come un profeta: e’ il perfetto uomo medio. Abnego viene eletto presidente degli Stati Uniti e dopo di lui i suoi discendenti, che diventano i leader del mondo intero. Con il passare del tempo gli uomini diventano sempre più standardizzati. L’homo abnegus, dal nome di George Abnego, sostituisce l’homo sapiens. L’umanità regredisce tecnologicamente finché, dopo un quarto di milione di anni, gli uomini finiscono per essere addomesticati da una specie evoluta di cani che li impiegano nel loro sport preferito: il recupero di bastoni e oggetti. Nascono gli uomini da riporto.
Fantascienza, certo. Ma per evitare un futuro di cui faremmo volentieri a meno, Deneault indica una strada che parte dai piccoli passi quotidiani: resistere alle piccole tentazioni e dire no. Non occuperò quella funzione, non accetterò quella promozione, rifiuterò quel gesto di riconoscenza per non farmi lentamente avvelenare. Resistere per uscire dalla mediocrità non è certo semplice. Ma forse vale la pena di tentare.
(L’immagine “Mediocrazia” all’inizio dell’articolo e’ tratta dalla copertina dell’Ep del gruppo “Il Rumore Bianco” presente sul sito https://ilrumorebianco.bandcamp.com.  L’autore dell’immagine e’ Davide Zuanazzi)

sabato 5 marzo 2016

HOTEL PALAZZO VICECONTE **** A MATERA " CAPITALE DELLA CULTURA EUROPEA 2019 "



Il più bel panorama sui Sassi di Matera.

Benvenuti a Palazzo Viceconte Matera, ove concedervi il lusso di una pausa in una seducente e calma atmosfera d’altri tempi.
Il Palazzo Viceconte di Matera, recentemente restaurato è situato nella parte più antica della città, dalla quale scorgere il più bel panorama suiSassi e i sui dintorni di Matera.
All’interno vi è una bella Corte settecentesca e una scala monumentale che conduce agli eleganti saloni del piano nobile arredati con mobili antichi, dove è ospitata una bellacollezione di quadri dal XVII al XX secolo.
Un grande terrazzo, raggiungibile con gli ascensori, permette una vista eccezionale sui Sassi, sul fiume Gravina e su tutto il parco della Murgia circostante.
L’Hotel Palazzo Viceconte Matera propone 14 stanze da letto dallo stile unico e l’atmosfera calda e accogliente e un arredamento dai tessuti e le tinte di pregio. Tutte le camere degli ospiti offrono una vista fantastica sui Sassi di Matera o sul Cortile del 700. Gli ambienti delle stanze sono spaziosi e presentano tutte il bagno con la vasca e la doccia. Dispongono di comfort moderni e garantisco la giusta proporzione tra ambiente e servizi.
L’Hotel Palazzo Viceconte propone anche un’ampia scelta di sale riunioni per meeting,convegniconferenze e matrimoni.

PER INFORMAZIONI E PRENOTAZIONI :


domenica 24 gennaio 2016

Da alcune ricerche fatte risulta che i Pugliesi sono molto golosi ma poco acculturati



                        Pugliesi golosi ma poco acculturati

              Boom di spesa per i pranzi secondo la Confartigianato



REDAZIONE ALTAMURALIFE
Pugliesi golosi e vanitosi ma poco propensi a spendere in cultura. E' questo il quadro che emerge dall'analisi dell'Osservatorio economico di Confartigianato .
Si tratta di uno studio elaborato su dati Istat, su un arco di tempo che va dal 2002 ad oggi. Quella che emerge è una fotografia dei consumi dei pugliesi: in pratica tagliamo tutto, dalla casa ai trasporti e all'istruzione, ma non rinunciamo alla tavola e al vestiario.

Ogni mese, i pugliesi sborsano, in media, 446 euro per l'acquisto di generi alimentari e bevande non alcoliche, pari al 21,7 per cento della totale della spesa, mentre la media nazionale si ferma a 436 euro, pari al 17,5 per cento del dato complessivo. Per le bevande alcoliche e i tabacchi si spendono 44 euro e per l'abbigliamento e le calzature circa 120 euro contro i 114 della media nazionale.
La situazione si capovolge, però, quando si parla di spese per la casa su cui in Puglia si impegnano in media 662 euro al mese, contro una media nazionale di 913 euro.
Le differenze aumentano con i trasporti: 201 euro è la spesa media regionale contro i 257 di quella nazionale. Per la cultura e gli spettacoli appena 78 euro contro una media nazionale di 121 euro. Per l'istruzione 10,84 euro contro 14,07. Differenze che scompaiono quasi del tutto quando si parla di sanità (107 euro contro 109).

Bisogna considerare che la spesa media mensile di una famiglia pugliese è di 2.061 euro. Ma un italiano ha in media la possibilità di spendere 2.488 euro. Si tratta di un valore medio che raggruppa sia gli anziani soli ultrasessantenni che tirano avanti con una pensione di mille euro al mese, sia le famiglie con più di tre figli a carico, gli imprenditori e i liberi professionisti con redditi ben più elevati.

Il micro eolico


  • Arriva sui tetti il micro eolico 

Arriva sui tetti il micro eolico che si monta come i LEGO

(Rinnovabili.it) – Arriva dalla Germania, e più precisamente dalla società tedesca di design EMAMIDESIGN, l’ultima novità in fatto di micro eolico per i tetti domestici. Premiato all’ultima edizione del celebre premio Red Dot Design Award e selezionato dal Green Product Award, la micro turbina “made in Germany” colpisce innanzitutto per l’originale design; Windflock, questo il nome del piccolo aerogeneratore, è stato studiato appositamente per sfruttare in maniera innovativa l’energia del vento adattandosi con semplicità alla struttura edilizia e fornendo un prodotto di facile istallazione. L’impianto si basa su una struttura modulare: i designer hanno pensato ad un sistema aperto e flessibile, costituito da piccolissimi generatori eolici a tre pale e ad asse orizzontale, da incastrare tra loro come mattoncini LEGO fino a formare una sorta di “filo spinato eolico”. 

Sul sito della EMAMIDESIGN non è fornito alcun dato tecnico della turbina, ma viste le dimensioni davvero ridotte è ovvio che ogni unità abbia una potenza nominale ben al di sotto dei 10 kW di potenza nominale. Il sistema tridimensionale però, può essere, in teoria, modificato per rispondere a qualsiasi tipo di forma o volume richiesto dagli utenti, aumentando di conseguenza anche la potenza complessiva fino a soddisfare le necessità richieste.
Dalla progettazione alla produzione commerciale potrebbe però passare molto tempo. Il micro eolico, infatti, rappresenta ancora oggi un settore di nicchia, dalle potenzialità perlopiù ancora sconosciute. Solo nell’ultimo anno qualcosa si è mosso: Italia nella prima metà del 2014 il comparto eolico di piccole dimensioni (mini e micro) ha vissuto una crescita importante di installazioni superando i 16 MW, circa il 58% in più rispetto agli ultimi 6 mesi del 2013. Ma analizzando i dati più da vicino si scopre che sul fronte dell’eolico domestico la strada percorsa è davvero poca: per le turbine tra 1 e 6 kW di potenza il mercato 2014 ha registrato una vera e propria stasi.

Come recupera facilmente le foto dalla scheda SD


Le foto delle vacanze si sono appena cancellate dalla tua scheda di memoria e sei nella disperazione più totale? Aspetta prima di lanciare la fotocamera dalla finestra, primo perché non è lei la vera responsabile e in secondo luogo perché potrai provare a recuperare le foto eliminate con una procedura aperta a tutti, anche a chi non ha molta dimestichezza con il computer. Il segreto è presto detto: quando cancelli qualcosa da un archivio digitale in realtà rendi lo spazio disponibile e i dati non vengono persi finché non si sovrascrive con qualcosa di nuovo. Primo passo, dunque, non scattare nuove foto, secondo passo… leggi la prossima pagina.

In caso di scheda SD contenuta su fotocamere, videocamere o affini, puoi utilizzare facilmente il tuocomputer. Non importa se dotato di sistema operativo WindowsMacOSX oppure Linux. È necessario scaricare un programma multipiattaforma chiamato PhotoREC, che è gratuito e si installa in un attimo. Una volta lanciato si deve seguire la semplice procedura che consente di rilevare la natura della formattazione della scheda e poi, in seguito, recuperare il cancellato. Come? Si deve cliccare suFile Formats andando a selezionare tra i formati JPG, PNG e RAW e poi cliccare su BROWSE , selezionare la cartella dove copiare i file che sono stati cancellati e il gioco è fatto.

In caso di microSD ad esempio contenuta su smartphone e tablet Android potrai scaricare l’applicazione DiskDigger che è gratuita e si trova sul market Google Play. Il funzionamento è del tutto simile: si apre il programma, si indica la schedina e si parte con il recupero dei file cancellati. Tutto qui. Buona pesca miracolosa dei contenuti eliminati.


Tante idee per aprire un franchising


I Settori del Franchising

Il Franchising ti consente di metterti in proprio e diventare un imprenditore di successo nel modo più semplice possibile. Mettersi in proprio è sempre più semplice con la formula del Franchising, ed i continui studi statistici e di settore dimostrano che questa tipologia di business è in continua espansione nonostante la crisi economica.
In questa sezione potrai ricercare la migliore offerta Franchising nel settore che ti piacerebbe lavorare. Ogni Franchisor ha una pagina dedicata contenente una scheda dettagliata dove si trovano tutte le informazioni sull’Azienda e sull’offerta ai Franchisee come ad esempio l’investimento da sostenere.
I vari metodi di ricerca del portale ti permettono di trovare il franchisor ideale per te. Hai la possibilità di cercare per settoreper marchioper investimentoche sei disposto a sostenere, ed il nostro motore di ricerca interno restituirà una lista di tutti i franchisor che rispettano i criteri selezionati. Da ogni pagina dei Franchisor hai a disposizione un Form che invia una richiesta informazioni senza impegno direttamente all’Azienda e sarete contattati al più presto per ricevere tutte le informazioni necessaria ad aprire un punto vendita. 

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Un vero record per un Italiano che parla 11 lingue.



Italiano, 35 anni, parla 11 lingue: ecco i suoi trucchi

Questo articolo è pensato per chi ha il sogno di diventare multilingue. Luca Lampariello rivela in che modo è riuscito a trovare la motivazione per imparare 11 lingue e consiglia a tutti di... iniziare senza indugi!

Incontrare qualcuno che parla fluentemente tante lingue provoca, in genere, un certo disorientamento. Il multilinguismo è considerata una cosa fantastica e -quasi- impossibile da raggiungere, soprattutto quando le lingue supplementari vengono imparate in età matura. Sono totalmente d’accordo quando sento dire che parlare tante lingue è bellissimo… ma avrei da obiettare sulla sua presunta difficoltà.
Mi chiamo Luca Lampariello e oggi vi propongo un percorso alternativo rispetto alla strada che tutti conosciamo bene: non vi parlerò di come ho imparato 11 lingue, bensì delle ragioni che mi hanno spinto a farlo. I veterani vi diranno che la motivazione è fondamentale… macome si fa a trovare la motivazione e mantenerla viva nel tempo?
Imparare le lingue non si significa trascorrere le ore con il capo chino sui libri. Significa viaggiare in posti meravigliosi, incontrare persone interessanti, assaggiare cibi deliziosi e scoprire un po’ più di se stessi. La mia motivazione deriva da queste esperienze, possibili solamente grazie all’apprendimento delle lingue.
"Sono totalmente d’accordo quando sento dire che parlare tante lingue è bellissimo… ma avrei da obiettare sulla sua presunta difficoltà."
Imparare l'inglese Inglese

La lezione imparata: le lingue non possono essere insegnate, possono solo essere imparate. Avere qualcuno che vi aiuta nel processo è molto utile. Trovate una guida, non un insegnante.
Quando avevo dieci anni, nel 1991, l’inglese era già la lingua internazionale per eccellenza e il suo studio era obbligatorio. All’inizio ho fatto fatica. L’insegnante non mi piaceva, le spiegazioni sulla grammatica mi confondevano e il materiale era monotono. Pensavo che non ce l’avrei mai fatta.
Poi i miei genitori hanno assunto un’insegnante privata. Io avevo tredici anni e lei era semplicemente fantastica. Non mi ha semplicemente insegnato la lingua… me l’ha fatta scoprire. Mi ha messo sulla strada giusta verso l’apprendimento e, ancora più importante, l’amore per la lingua. Ho iniziato a leggere moltissimi libri in inglese.

Mia zia mi regalò "The Hardy Boys" per il mio compleanno… e a quel punto la strada era spianata. Leggere libri e guardare film in lingua originale ogni giorno e conversare con la mia insegnante una volta alla settimana per due anni, hanno funzionato a meraviglia. A 15 anni ero fluente in inglese e avevo addirittura un accento americano. Ho scritto un articolo nel mio blog che spiega come l’ho imparato.
"Imparare è un tesoro che segue il suo possessore ovunque" (Proverbio cinese)
Imparare il francese Francese

La lezione imparata: un idioma è una porta che si apre su un mondo tutto da esplorare. Abbassate la guardia e innamoratevi della lingua, del paese, di una persona oppure addirittura del cibo. Non c’è motivazione più efficace!
Ho iniziato a imparare il francese più o meno nello stesso periodo dell’inglese, incontrando le medesime difficoltà. Tutto è cambiato all’età di 14 anni, quando ho scoperto che potevo guardare la televisione in francese. Ho iniziato a guardarla per due ore dopo cena e… a 15 anni ero già fluente.
Qualche ora di televisione al giorno ha funzionato di più di tre anni di scuole medie.
Nel 2010, poi, mi sono trasferito a Parigi e vivere lì per tre anni, mi ha aiutato a scoprire sempre di più la cultura francese: storia, tradizioni, barzellette, riferimenti culturali e il rispetto per l’orgoglio francese riguardo cucina e lingua.
"Se parlate a un uomo in una lingua che capisce, quello che dite finirà nella sua testa. Se, invece, gli parlerete nella sua lingua nativa, quello che dite finirà nel suo cuore" (Nelson Mandela)
Imparare il tedesco Tedesco

La lezione imparata: nel momento in cui trovate un metodo che vi piace, potete iniziare da soli a imparare qualsiasi lingua. Non esiste metodo migliore. Trovate qualcosa che funziona e, soprattutto, sperimentate!
Il tedesco è stata la prima lingua che ho iniziato a imparare da solo. Non mi ricordo esattamente perché l’ho fatto… ricordo solo che non avevo idea di come fare. Per un paio di mesi, ho utilizzato una vecchia grammatica polverosa che avevo trovato nella libreria di mia nonna. Le lettere gotiche riempivano le pagine e mi imploravano di imparare concetti grammaticali vuoti. E, ben presto, ho perso l’entusiasmo.

Poi, ho visto una pubblicità in televisione che parlava di corsi a puntate da comprare in edicola… ed è stato così che ho inventato il mio metodo: una tecnica speciale per assorbire le strutture di base di ogni lingua in un modo leggero, naturale e divertente.
Il metodo è arrivato in modo organico e mi sono immediatamente reso conto che funzionava molto bene su di me. Dopo averlo utilizzato per un anno e mezzo, ho incontrato un gruppo di tedeschi in vacanza. Mi ricorderò per sempre la loro faccia mentre mi chiedevano ripetutamente e disorientati: “Wie kannst du so gut Deutsch?!” (Come mai parli così bene il tedesco?).
Questa reazione e la connessione privilegiata che avevo con loro sono state la benzina che ha fomentato la mia passione per perfezionare il mio tedesco. Da quel momento in poi, ho iniziato a leggere senza sosta. La lingua è diventata una parte integrante della mia vita.
"La lingua è la mappa di una cultura. Ti spiega da dove vengono le persone e dove stanno andando" (Rita Mae Brown)
Imparare lo spagnolo Spagnolo

La lezione imparata: imparare le lingue offre una nuova e più profonda visione della propria lingua nativa. Se volete imparare una lingua simile alla vostra, iniziate subito a parlarla. È molto più facile di quanto voi possiate immaginare.
Spagnolo e italiano sono come due sorelle: diverse ma allo stesso tempo molto simili. Uno dei luoghi comuni più diffusi in Italia è che lo spagnolo sia facile e che, per parlarlo, sia sufficiente aggiungere qualche "s" alla fine delle parole italiane. La struttura generale delle due lingue è simile ma ci sono alcune differenze sostanziali rispetto alla pronuncia, all’intonazione e all’uso idiomatico.
Nel 2007, ero a Barcellona per uno scambio studentesco. Anche se ero immerso in un ambiente quasi totalmente catalano, vivevo con una ragazza spagnola di Malaga e uscivo spesso con altre persone spagnole. La lingua si è semplicemente trasmessa.
Da quel momento, lo spagnolo è entrato a far parte di me.
"Quelli che non sanno nulla delle lingue straniere, non sanno nulla di se stessi" (Johann Wolfgang von Goethe)
Impara l'olandese Olandese

La lezione imparata: non esistono lingue inutili. Prima o poi vi serviranno quindi non lasciate che gli altri decidano quello che volete imparare. Lasciatevi guidare dai vostri interessi e convinzioni.
Ho incontrato Lotte, una ragazza olandese, in un campeggio nel nord della Sardegna. Lei parlava poco l’inglese e ben presto ci siamo entrambi resi conto che non riuscivamo a comunicare. Ci siamo divertiti molto assieme eppure c’era sempre qualcosa che mancava e che mi assillava.
Per questo motivo, ho deciso di imparare l’olandese. Lotte ed io ci siamo persi di vista ma la lingua è rimasta con me. La gente insisteva, dicendomi che l’olandese era una lingua inutile da imparare -gli olandesi parlano tutti inglese- ma io continuavo anche leggendo i libri e i giornali che i miei amici mi portavano dall’Olanda. Sapevo che prima o poi la lingua mi sarebbe servita e avevo ragione.
Ora parlo olandese tutti i giorni con il mio coinquilino. Parlare e migliorare l’olandese è diventato facile e interessante. La vecchia credenza che sostiene che tu debba trasferirti in un paese per impararne la lingua è semplicemente sbagliata.
"Impara tutto quello che puoi da chiunque: arriverà un giorno in cui sarai grato di averlo fatto" (Sarah Caldwell)
Imparare lo svedese Svedese

La lezione imparata: iniziate a lavorare sulla vostra pronuncia fin dall’inizio per evitare di sviluppare cattive abitudini. Siate flessibile. Se una lingua si distingue per le sue caratteristiche peculiari, allora lavorateci fin dall’inizio.
Stavo pensando da un po’ di imparare una lingua scandinava, quando la mia ragazza italiana di allora mi regalò un corso di svedese per il compleanno. Lo svedese mi sembrava incredibilmente musicale a causa della sua particolare intonazione, ma all’inizio ho incontrato qualche difficoltà.
Nel 2004, mi sono recato a Stoccolma per la prima volta e mi sono subito innamorato della cultura.
Ho parlato svedese soprattutto con i norvegesi, ho guardato film e letto libri -soprattutto gialli, visto che gli scandinavi sono così bravi a scriverli.
E la cosa più bella di tutte? Se parli svedese, la maggior parte degli scandinavi ti capirà e tu avrai accesso a una cultura e a un modo di pensare davvero affascinanti.
"Conoscere un’altra lingua è come avere una seconda anima" (Carlo Magno)
Imparare il russo Russo

La lezione imparata: quando state per lasciar perdere con una lingua, cercate qualcosa che possa ravvivare il vostro desiderio di imparare. Visitate il paese, incontrate qualcuno, guardate un film, caricate un video su YouTube. Qualsiasi cosa va bene.
Dopo le lingue romanze e germaniche, volevo provare qualcosa di nuovo. Il russo mi sembrava esotico, ricco, elegante e complesso in modo intrigante. Pensare in russo significava risolvere un dilemma matematico in ogni frase. Continuavo a stupirmi e a chiedermi come i russi potessero farcela ogni giorno. Nessuno mi stava aiutando e dopo 8 mesi avevo iniziato a pensare che forse si era trattato di un errore. Non avevo fatto molti progressi. Per tre anni non ho fatto molto e poi ho deciso di postare un video su YouTube nel quale parlavo russo.
La risposta mi ha lasciato attonito. In nessuno dei miei sogni mi ero immaginato che così tante persone potessero lasciare commenti entusiasti. I russi pensano che la loro lingua sia difficile e inaccessibile, quindi quando sentono che qualcuno pronuncia qualche frase, esplodono di gioia. Dopo questo esperimento, ho continuato a parlare russo con regolarità e piano piano, mi sono orientato nel labirinto della grammatica.
"Imparare è un tesoro che segue il suo possessore ovunque" (Proverbio cinese)
Imparare il portoghese Portoghese

La lezione imparata: se organizzate bene il vostro tempo e la vostra energia, potete imparare due lingue allo stesso tempo.
Ho iniziato a imparare il portoghese europeo nello stesso esatto momento in cui ho cominciato lo studio del cinese mandarino e, non avendo mai studiato due lingue nello stesso momento, mi sono dato delle regole precise.
Il portoghese, così come lo spagnolo, è arrivato in modo molto naturale. Mi sono concentrato sulla pronuncia, che può essere complicata. Le vocali senza accento vengono pronunciate appena e le frasi a volte sembrano un susseguirsi ininterrotto di consonanti. Come conseguenza, il portoghese può suonare simile al russo per le orecchie inesperte. Spesso mi chiedono perché ho scelto il portoghese europeo invece di quello brasiliano che è più diffuso.La verità è che spesso non sono io a scegliere le lingue ma sono loro a scegliere me.
"La lingua è il sangue dell’anima nel quale i pensieri corrono e crescono" (Oliver Wendell Holmes)
Imparare il polacco Polacco

La lezione imparata: i viaggi sono le migliori motivazioni. Viaggiate più che potete, quando potete. Molte porte si apriranno e voi sarete ancora più motivati.
Ho visitato la Polonia nel 2012 per la seconda volta nella mia vita e mi sono semplicemente innamorato del paese e delle persone. Oltre a utilizzare la mia tecnica di traduzione bilingue, ho iniziato a parlare fin da subito, organizzando degli incontri settimanali con Michal, un ragazzo polacco incontrato nell’estate del 2012.
Consiglio vivamente questo approccio, soprattutto se avete intenzione di imparare una lingua slava e ne parlate già una. Anche se il russo e il polacco sono piuttosto diversi, la struttura generale è più o meno la stessa, e conoscerne una aiuta moltissimo l’apprendimento dell’altra.
Dopo un anno, ero piuttosto fluente e ho creato un video in YouTube assieme a Michal a proposito di una visita in Polonia. Il video è stato notato, un giornalista mi ha intervistato esono addirittura finito alla tivù polacca.
"Sapere una lingua ti mette in un corridoio. Saperne due apre tutte le porte che trovi sulla strada" (Ludwig Wittgenstein)

Cinese Mandarino

La lezione imparata: non lasciatevi intimidire dalla reputazione di una lingua.
Avevo sentito che il cinese era molto difficile, ecco perché non avevo mai provato ad impararlo. Spinto dall’inaspettato successo dei miei primi video di YouTube, ero in cerca di una nuova sfida. Ho iniziato a modo mio ma ben presto mi sono trovato di fronte a nuove sfide.
Se qualcuno vi dice che il cinese è impossibile da imparare da soli, come ho sentito dire, vi assicuro che non è assolutamente vero. Ci sono molti aspetti complicati ma alcuni anche molto semplici e gratificanti. Se sapete come affrontare i toni e i caratteri cinesi, a lungo andare questa lingua non è molto più difficile delle altre e la soddisfazione finale di riuscire a parlarlo è immensa. Entrerete in contatto con una cultura incredibile, inoltre i cinesi sono piacevolmente sorpresi quando qualcuno parla bene la loro lingua.
"I limiti della mia lingua sono i limiti del mio mondo" (Ludwig Wittgenstein)

Giapponese

La lezione imparata: alcune lingue hanno delle caratteristiche del tutto nuove, quindi dovete essere flessibili e adattare il vostro metodo alla lingua. Se il vostro metodo non funziona, cambiatelo! Non smettete. Non rinunciate.
Quando ho iniziato a studiare il giapponese, volevo una nuova sfida ma non mi sarei mai immaginato che sarebbe stato così difficile. Non ero in grado neanche di costruire delle semplici frasi perché la struttura è totalmente diversa da quella di qualsiasi altra lingua che io abbia mai imparato.
All’inizio pensavo che il problema fosse temporaneo e che potesse essere risolto parlando regolarmente, ma non era questo il caso. Il giapponese è ancora la mia più grande sfida ma penso proprio che ce la farò. Ho solo bisogno di adattare il mio approccio e vivere il linguaggio.
"Una lingua diversa è una diversa visione della vita" (Federico Fellini)

Conclusione

Scoprire un metodo per imparare le lingue straniere è stata, senza dubbio, una delle cose più belle che mi sia mai capitata.
Imparare le lingue è un’esperienza fantastica e non ci sono riuscito trascorrendo le ore a casa a guardare le declinazioni dei verbi, bensì uscendo e vivendo.
Parlare molte lingue non è e non deve essere una performance intellettuale. È un atto d’amore verso se stessi e gli altri che aiuta a scoprire la straordinaria diversità della natura umana e le molteplici sfaccettature della tua personalità.
A quelli che mi chiedono perché mi piace così tanto imparare le lingue, rispondo: "Non vivo per imparare le lingue, imparo le lingue per vivere una vita migliore".